DINAMISMI 2023

Alessandro Rietti
OSSIMORO: ACUTO & OTTUSO a cura di Antonio Zimarino
Performance con Simone Borghese e Irene Cocchini
Domenica 19 novembre 2023

Contraddizioni, correlazioni e processi di Antonio Zimarino
L’ossimoro è un segno di contraddizione capace di creare cortocircuiti logici e così ampliare le strade possibili ai processi della comprensione; mentre ogni essere umano anche inconsciamente (come sosteneva la teoria della Gestalt) cerca di riordinare sia visivamente che concettualmente il senso delle cose riportandole ad un ordine di comprensibilità, l’ossimoro destruttura ogni logica e costringe chi lo legge o chi lo vede, a colmare i vuoti di senso tra concetti contrari o a riformulare la visione stessa. Mente, cultura e memoria cercano le connessioni possibili al contrario di altre figure retoriche quali la similitudine o l’analogia, l’ossimoro non intende stabilire alcuna interpretazione univoca: non conclude. Dal mio punto di vista, questa figura retorica ha tre aspetti essenziali davvero interessanti che hanno a che fare con la trasformazione e il movimento: c’è il momento provocatorio delle contraddizioni; quello intuitivo delle correlazioni tra forme o concetti e quello dinamico dei processi di rielaborazione e ricerca di connessioni ma appunto, senza dare soluzioni. Mettendo da parte i gusti personali, quale sarebbe realmente la parte più importante in questo “gioco” intellettuale e formale che l’ossimoro pone? Quella “che disgrega” o quella “che ipotizza”? La quaestio non è né oziosa né inutile, perché spinge a rilevare e puntualizzare una “condizione” del vivere e della creatività che non interiorizziamo mai definitivamente anche se essa è da sempre ampiamente presente già nelle forme filosofico - esistenziali alle origini del pensiero occidentale, (Atomismo, Epicureismo, Stoicismo) e trova la sua migliore definizione (e probabilmente, origine) nei principi della filosofia del Tao cinese. I due “momenti” (costruens e destruens) sono le parti essenziali di un “essere” inseparabile, di una condizione ciclica del pensare e del vivere che non può trovare mai realmente stasi dichiarative ma solo precari equilibri di proposta di “senso” che di per sé, non sono sempre cose facili da gestire. Oggi, al contrario, soprattutto nei nostri recenti tempi neopositivisti, ci siamo educati esistenzialmente ad operare, agire, (fare arte) per pervenire ad un “esito” certo, rassicurante e gratificante in relazione ai valori dominanti disposti dai riferimenti socioculturali prevalenti. Se raggiunti, essi ci rendono riconoscibili agli altri e al contesto quindi, l'incerto, il contraddittorio, l’equilibrio precario diventano solo fasi transitorie per raggiungere obiettivi. All’incompletezza, all’inesauribile complessità semantica dell’ossimoro così disturbante si preferiscono, in particolare in arte, forme più comunicative, descrittive e analogiche per illustrare pensieri, visualizzare concetti e considerazioni: perché mai impiegare fatica per rendere evidente qualcosa di mai definito e definitivo, cioè un “problema”? E invece, la condizione creativa dell’essere è esattamente in quella area a – logica e vaga di equilibri precari che non coincidono con le certezze, che non sono raggiungimento di o riconoscimenti di ma solo proposte di senso, sospensioni dinamiche tra essere/non essere, già/non ancora. Ecco così che l’apparente semplicità di questa installazione formalmente e metaforicamente non lo sia affatto: linee ed angoli sono la base della geometria razionale euclidea e sullo spazio bianco della parete, sembra voler chiudere e delimitare spazi riconoscibili. Ma è davvero così? Essi non sono forse correlativi dello spazio indefinito, così come sono correlativi tra loro gli angoli ottusi ed acuti? Al momento in cui una parte viene delineata, essa evidenzia esattamente l’esistenza dell'altra, che è poi quella che semanticamente più complessa perché contiene l’altra come una sezione.

Quale delle parti è più importante o più “sensata”: la dimensione “euclidea” del reale o quella non euclidea del possibile? In realtà entrambe sono implicite nell’altra perché sono “possibilità”, scelte opponibili ma perfettamente coesistenti. Proviamo però ad andare oltre nell’analisi visiva: gli angoli correlativi non chiudono e o non aprono nulla senza presenza o assenza di rette e segmenti; essi razionalmente parlando, non significano nulla rispetto ad un area o ad uno spazio volumetrico se non sono collegati da un angolo. Di fatto, qualsiasi forma anche estremamente logica ed essenziale, dipende dalla disposizione o dalla lettura della relazione tra i suoi minimi elementi base (angoli-rette); anche questa condizione è reversibile e quindi, ossimorica: ci ricorda che una realtà non esclude mai l'altra, ma piuttosto, la implica e ciò che percepiamo del mondo (finitezza, infinitezza o equilibrio) dipendono da scelte e consapevolezze. Questa installazione aggiunge però un elemento concettualmente ancora più complesso: in alcuni punti (angoli o linee) emergono delle specie di “concrezioni” indefinibili per forma e toni. Sono qualcosa di organico in realtà, perché sono composte di carta e bitume e si pongono come una terza inferenza negli elementi minimali della geometria razionale euclidea (angolo-segmento). Questa “materia pittorica” nasce dove vuole, dove crede, come crede dall’occhio dell’artista: riempie oppure apre, svuota, chiude o sviluppa: sono resti o sono inizi di qualcosa? La sua struttura frastagliata ricorda visivamente e metaforicamente il frattale ovvero una struttura con dimensione frazionaria, non intera, non euclidea che serve da modello matematico per studiare le geometrie che appartengono ai fenomeni naturali. Anche (o soprattutto) la pittura / la natura sono “imprendibili” dalle logiche e richiedono un approccio non euclideo che non potrà mai arrivare ad essere “misurabile” nella realtà, ma quale realtà? Quella che si espande o quella che si ritrae? La problematica evoca nel suo insieme il grande dibattito dell’arte alla fine degli Anni Sessanta tra gestalt e poverismo, ovvero tra ragione e natura, tra pensato e trovato. Ma qui giustamente si parla di coesistenza, cioè dell’ossimoro, della creativa irrisolvibilità del dualismo, perché a pensarci bene il dualismo è una cosa che sta solo nella nostra pretesa di stabilire, verità, scopi e funzioni di una cosa rispetto all’altra mentre tutto è presente, è coesistenza nell’esperienza visiva. Gli elementi delle forme, euclidei o non euclidei che siano, sono generativi di qualcosa solo se pensati in una relazione: al momento in cui diventano rappresentazione di - rappresentazione per tutto rischia di svilirsi in un consueto e trito gioco di “riconoscimenti e citazioni”, di soggettivismi narrativi, arguzie, ritualità e stilemi di forme, atteggiamenti e pensieri. E invece l’ossimoro ci salva sempre, ci destruttura, ci fa prendere strade divergenti, ci costringe a “ripensare” a rileggere, rivedere. L’ossimoro è provocazione alla visione critica, complessa anti illustrativa; l’ossimoro è sanamente “antipatico”, impedisce la piacevolezza leccata, la frase convenzionale, la scialba retorica. L’ossimoro ti pone al centro il problema di cosa vuoi farne davvero dell’arte e ti aiuta a rivelarti. Circondati interamente da un spazio ossimorico, qui, in questa piccola mostra secondo me, si ripuntualizza il senso e la necessità di fare arte per comprendere, per scegliere, per aprirsi ai sensi reversibili e profondi del vivere e non certo per esibirsi.

LOCANDINA
PIEGHEVOLE

Mario Costantini
CODICI AD INTRECCIO a cura di Antonio Zimarino
Venerdì 21 aprile 2023

Codici ad intrecci di Antonio Zimarino
Le strutture geometriche sembrano avere la funzione di contenere e gestire internamente alla “geometria logica”, al segno nitido del contorno, una sorta di caotica agitazione interna espressa con fili, tensioni e sovrapposizioni illogiche, intrecciate e confuse. Con la sua ricerca nella cosiddetta “fiber art” sembra che Costantini stia oggi lavorando su due aspetti formali fondamentali del minimalismo, un approccio da lui costantemente approfondito e riscoperto nella sua parabola di ricerca artistica: da un lato c’è la forma, la struttura di un’opera che si scarnifica fino alle sue linee, ovvero al suo“disegno” nello spazio; dall’altra, il contenuto, i volumi le eventuali rappresentazioni che ugualmente si sfrangiano e si frantumano contraendo sia loro volta in segni e in linee cromatiche di ciò che resta della realtà stessa. Molte le domande che questi “testi” pongono sia a livello di scelta formale che di possibile lettura: tendono a contraddire o forse ad esasperare i limiti della tradizionali concezioni di scultura o del disegno, che pure Costantini ha sempre praticato nel suo percorso artistico. Volumi e disegno sono degli strumenti che si adattano in genere, all’illusione mimetica ma qui non vogliono essere usati come tali ma “al contrario” come strumenti per superare il realismo e accedere ad un linguaggio “base”, ad una sorta di “codice a barre” capace di giocare tra percezione emotiva e costruzione razionale. Ridurre il linguaggio all’estremo delle linee (anche di colore) pone l’osservatore in una condizione molto interessante: stabilire la relazione simbolica tra quando esse vengono disposte dall’artista per “regolarità” equilibrata di forma (percezione logica ordinativa) e quando invece le dispone in un rapporto caotico/irregolare (percezione a-logica emotiva). L’artista vuol farci lavorare simbolicamente sui codici essenziali della visione che sono anche i codici essenziali della percezione e la radici stesse dei processi percettivi / immaginali: dal disordine all’ordine e viceversa, ovvero, l’essenziale rapporto generativo trakhaosΧάος,/kosmos κόσμος all’origine del pensiero occidentale quindi, costante condizione generativa delle forme stesse.

Ma dove ci porta questa riduzione minimale linguistica? Ci porta esattamente a destrutturare il consueto e ad aprire la nostra possibilità di “simbolizzazione”, che per altro appare in questa mostra orientata in due direzioni davvero interessanti: alcune opere ad es. Homo (2012); Divina Commedia (2020) richiamano il “libro” come simbolo - contenitore di saperi evidentemente confusi confondibili, contraddittori, intersecati, inestricabili; altri lavori richiamano strutture cosmiche, stellari, vettoriali o “mappe” ma costituite esattamente dalla stessa inestricabile complessità di una pagina di un libro. Vogliamo leggere, mappare, viaggiare, conoscere, definire ma al massimo riusciamo a delineare un’area senza mai arrivare esattamente a capire cosa essa possa o debba contenere, se non a sua volta, altri universi, suggestioni ipotesi indeterminabili ma che pure possono tenere insieme quella “ipotesi” di struttura. E’ un continuo gioco di ipotesi e possibilità, di connessioni intuibili ma inestricabili, di forze “interne” che cercano di tenere insieme delineazioni, comunque pronte ad esplodere se quello stesso intreccio interiore perda coesione. L’interiorità e confusa e irrazionale, ma tiene insieme ipotesi di senso, di conoscenze e di viaggi. Credo che questo strenuo lavoro di equilibri tra ipotesi e tensioni (per altro non percepibili se non attraverso la scarnificazione stessa dei tradizionali linguaggi della rappresentazione) possa essere meglio compreso analizzando proprio il lavoro intitolato Divina Commedia: una struttura solida composta da tre “pagine” (le cantiche, le terzine) fili multicolori che tengono insieme tre “simboli” costituiti da altrettanti fili in cui riconoscere alternativamente, cerchi concentrici, elementi conici o circolari ascendenti/discendenti; le trame lasciano intravvedere e riescono a legare realmente e visivamente da ogni punto di vista, ciascun simbolo, uno nell’altro, uno attraverso l’altro senza che nessuno sia realmente dominante e preponderante. Una perfetta rappresentazione dell’Uno e del molteplice e delle loro connessioni infinite.

LOCANDINA
PIEGHEVOLE

Emanuela Barbi
TEMPOCEANO a cura di Antonio Zimarino
Domenica 22 gennaio 2023

Tempoceano di Antonio Zimarino
I lavori di Emanuela Barbi hanno sempre avuto una loro particolare qualità che obbliga chi veramente voglia entrare in contatto con essi, a cercare le possibili connessioni visive e formali per ricostruire e ricomporre i dati di ciò che osserva. Di fronte alle forme, ai nessi, ai legami, alle immagini, ai dettagli e ai suoni, bisogna prendersi un proprio “tempo” per distinguere cosa esse davvero siano, senza pretendere di sapere cosa sarebbero per noi. Esse ci chiedono dunque un “tempo” di lettura, è questo tempo è molto importante perché ci aiuta non semplicemente a riconoscere ma a conoscere, a capire l’identità di ciò che si vede che è poi l’unico modo coerente ed efficace per provare ad interpretare. Ed è così anche per questa proposta pensata per Spazio InAngolo: ciò che lega tra loro la diversità degli stimoli visivi chiede un rapporto intimo e aperto, un andare in profondità con il senso di ciò che propongono cose, oggetti, forme, spazio e immagini. Credo che questo sia un punto fondamentale del rapporto che va stabilito con l’arte contemporanea: cercare cosa essa propone, cercare cosa di ulteriore ci possa dire; guardare prima “lei” e non tanto noi stessi e ciò che pensiamo di sapere. Le opere non facilmente categorizzabili, i sistemi aperti, gli equilibri insoliti chiedono una intelligenza ed un “tempo” interiore particolare per svelare e suggerire in noi le possibilità dell’interpretazione, ancorandoci alla conoscenza dell’identità per aprirci poi alla possibilità. Solo così e solo con opere non categorizzabili può iniziare un viaggio splendido e senza meta certa, che riguarda il “pensare” attraverso le immagini e il dato estetico. Proviamo allora a percorrere simboli e relazioni e vedere come questo viaggio possa comporsi o quali sensi possa aprire. Le immagini bidimensionali stampate sui teli sono quelle di un mare e di una spiaggia: l’artista le ha chiamate “veroniche” e già questo termine da solo suggerisce un approccio misterico tra realtà e immagine. La Veronica nei Vangeli è l’immagine del volto del Cristo morente: il mare è quindi “divinità” in sofferenza perché nel nostro contesto storico è sempre più caratterizzato come un luogo che raccoglie ciò che noi “rifiutiamo” ed è drammatico accorgersi che noi oggi non rifiutiamo più solo “cose”, ma persino gli esseri umani che cercano di attraversarlo nella speranza di una vita migliore e del cui dramma rimane solo il ricordo di una voce e la sua tensione disperata. Questi “sudari” si elevano, ascendono tirati verso l’alto, stabilendo una connessione visuale con un ipotetico cielo che li raccoglie e li richiama a sé, ma appaiono anche come “sipari” che svelano tanto la possibile perdita di senso di ciò che è rappresentato che la necessità di prendere coscienza di questa perdita. Il mare, così come il cielo sono “luoghi senza misura”, sono “oceani”, che simboleggiano continuità, vita, mistero, flussi, destini e orizzonti all’interno dei quali muoviamo e costruiamo i nostri rapporti con il vivere. Ma non solo noi: il mare che oggi stiamo in qualche modo “negando” è in realtà il luogo della nascita della vita il cui splendore e magnificenza si manifesta anche nelle cose più piccole e nelle “residuali” forme di vita che possiamo trovare su qualsiasi spiaggia. Le conchiglie, anche soltanto con le loro forme essenziali diventano elementi di composizione e di immaginazione: normalmente ci appaiono piccole, fragili e insignificanti ma se riusciamo ad osservarle con attenzione diversa (e qui la fotografia diventa elemento analitico straordinario quando il suo “guardare” riesce a rivelare tutte le potenzialità immaginali dell’oggetto) quei piccoli gusci diventano autentici “monumenti” (dal latino monimentum ricordo, prova, testimonianza) di ciò che invece la vita, se pur minima, è in grado di lasciare.

La madreperla dell’essere vivente che le abitava, ha lasciato una straordinaria immagine della sua “piccola” vita: adesso, di fronte ai nostri occhi e attraverso lo sguardo empatico dell’artista che le svelate, diventano universi autonomi di luce e colore e i loro cromatismi sembrano suggerire paesaggi, cieli, temporali, riverberi di luce e movimento costante come se li restasse impressa tutta la complessità inesauribile di qualsiasi vita e della vita stessa. Anche l’elemento residuale ha in sé una storia e inattese potenzialità simboliche e di senso: secondo il nostro modo di guardarlo può generare altre forme (un volo, una goccia): ogni cosa, anche nel dramma, può diventare generativa se siamo capaci di guardare apertamente e diversamente. Ma non c’è solo questo, ci sono piccoli rumori da cogliere intorno, c’è appena distinguibile, una piccola traccia o sentore d’ “acqua”, forse il vero elemento unificatore tra tutti i punti di questa “visione”. Di essa non vediamo rappresentazione ma non possiamo pensare che non ci sia: il suo appartenere cromaticamente e chimicamente al cielo e all’aria la rende “luogo e sostanza della vita”, che microscopica nasce in essa e per essa, capace nel tempo di creare “monumenti”, legami, meraviglie solitamente sconosciuti. Cosa risulta allora da questa complessità di stimoli visivi, formali, simbolici che si intersecano in questa particolare installazione? Certamente qualcosa di “non concluso”, certamente l’esperienza della coesistenza di dramma e speranza, certamente una attesa, una sospensione. Ma non è questa in fondo la sospensione esistenziale propria di chi vive la “contemporaneità”? Non è questa esperienza dell’essere con il tempo quella che F. Ferrari considera il nucleo drammatico ed irrisolvibile della “pratica filosofica” di ogni tempo? ¹. Dunque credo che questa installazione sia innanzitutto frutto di una partecipazione appassionata dell’artista al “tempo” e allo spazio profondo del nostro vivere e che sia il tentativo di condividere con noi questa attesa, questo desiderio di essere e partecipare consapevoli al vivere che scorre e che fluisce, inatteso e imprendibile, pieno di dubbi, dolori, ma anche di orizzonti e possibilità. Credo che se vi entriamo con attenzione lasciando parlare le opere (piuttosto che ostinarsi a parlare per esse) si apra anche per noi il senso di una riconnessione intima e profonda con uno stato esistenziale di equilibrio tra gli elementi fondanti del nostro essere, della nostra “chimica” e della nostra relazione con ogni briciola della creazione. E questo ricomporsi di sensi e significati in noi diventa contemporaneamente “conoscenza”, ed emozione, analisi e immaginazione, scoperta e rivelazione. Se possiamo vivere questo, stiamo facendo un’esperienza di ciò che “arte è” e dovrebbe essere: uno spazio infinito, come un oceano vivo, nel quale stupirsi di ciò che vi si può trovare.

¹ F.Ferrari, Introduzione, in: Del contemporaneo, Saggi su arte e tempo,B. Mondadori, Milano, 2007, p. IX

LOCANDINA
PIEGHEVOLE











inangolo © 2023 - tutti i diritti riservati