DINAMISMI 2022

Anzhelika Lebedeva
OMBRE a cura di Antonio Zimarino
Sabato 26 novembre 2022

Sospendere a volte, tutto, di Antonio Zimarino
La particolarità strutturale di Spazio InAngolo è quella di consentire al visitatore un’esperienza profondamente intima delle opere che ospita: le sue contenute dimensioni e la sua architettura dispongono al tempo e alla concentrazione, spingono didatticamente e se vogliamo, “spiritualmente” ad un rapporto intimo, attento e profondo con ciò che si mostra e incoraggiano ad un’osservazione e ad un’esperienza che strutturalmente non può essere superficiale. Le caratteristiche dello spazio si esaltano però quando le opere che vengono accolte hanno la capacità di dialogare con lo spettatore grazie ad una “forma” in grado di sviluppare una “compartecipazione”, una concentrazione che renda possibile andare a sé stessi, sospendendo anche solo per un attimo, le coordinate oggettive di un tempo e di uno spazio. E’ dunque l’opera che può fare la differenza tra il semplice guardare e il profondo percepire, come è il caso di questa vera e propria “installazione” esperienziale che è il lavoro di Anzhelika Lebedeva. Percorrendo brevemente il processo in cui il tutto si dispone (e che probabilmente, mi sbilancio un po’, è lo stesso processo che guida la costruzione dell’opera) forse la questione apparirà più chiara. Non c’è forma precisa in questi disegni ma c’è corpo e c’è profondità. Non c’è un immagine chiaramente definibile ma si colgono strutture “naturali”, forse caverne, canyon, cascate, torrenti, sentieri. Non c’è “colore” ma c’è una continua differenziazione di toni e luci capace di costruire una particolare dinamica dello sguardo chiamato a “registrare” le profondità differenti sulla piccola superficie. Il colore nero è a tratti “denso”, a tratti meno, ma non caratterizza l’immagine in modo tragico; l’alternarsi continuo di intensità del nero impegna, genera tensione, costringe lo sguardo a restare a lungo in uno spazio poco esteso in larghezza che diventa, esattamente per queste diverse intensità, molto esteso in profondità. Visti a distanza, questi disegni potrebbero apparire forme create dal “gesto”, da una dinamica “psichica” istintuale ma è proprio l’attenzione all’intensità del segno e al rapporto con la luce che dimostra che qui non c’è affatto un approccio irrazionale. Si tratta piuttosto di un “gioco con le ombre” che testimonia il desiderio di creare “fisicità” dello spazio: l’ombra è il risultato dell’interazione tra “presenza” e luce e questo continuo alternarsi e variare di intensità, segue una logica, una ratio, che è appunto quella della costruzione di uno spazio ipotetico oltre la superficie. Riassumendo: l’analisi formale mi dice che non c’è istintualità nella disposizione ma un controllo attento dell’effetto, dello spessore, dell’alternarsi di campi e tratti; i gradi di luce vengono fuori dialogando con i gradi del buio e così la fisicità emerge dalla superficie e la materia cromatica crea lo spazio. Il paradosso visuale è che questi piccoli disegni hanno corpo e fisicità, scavano spazio e costruiscono strutture oltre una esigua superficie quando, a distanza, apparirebbero casuali. Questo processo porta osmoticamente, dolcemente, senza fratture verso un approccio percettivo singolare: entrare nel gioco visuale a tentare di distinguere forme, di cercare “chiarezza”; ma l’obiettivo qui non è cercare “chiarezza” di un simbolo o di un significato ma “condurci” alla ricerca di una strada che possa portarci all’essenza della stessa immagine.

L’opera non è ciò che vediamo o non vediamo, ma la strada che percorriamo cercando. L’obiettivo sembra quello di farci ripercorrere ciò che l’artista ha pensato mentre costruiva e si avventurava lei stessa in quella strada, lasciandoci così, fuori dal tempo dentro la percezione più che dentro un possibile significato. Questa “finezza” cioè il lasciarci lì, sospesi a cercare piuttosto che arrestarci alla pretesa di definire, è una delle grandi qualità e novità di un’arte che intenda essere realmente contemporanea. Il “contemporaneo” non è mai definizione di qualcosa, proprio perché esso vive e si costruisce con noi e le nostre scelte: un’arte contemporanea che pretenda di fissare qualcosa, di definire, di definirsi come tale o rappresentare è qualcosa di incongruente con lo stato esistenziale del vivere la contemporaneità. L’arte contemporanea, come questa è, è una ipotesi di senso: provare a darlo, ad offrirlo, non so, con simbologie, rappresentazioni o quant’altro, è intenzione legittima, ma riduttiva. L’approccio più raffinato che possa darci l’arte che abita tra noi, è esattamente il “metterci” nella ricerca, disporci a farci cambiare luogo, a far trasmigrare la mente e le sensazioni dal logico al possibile. Pretendere e dichiarare sono illusioni potenzialmente presuntuose; farci vivere la ricerca del senso è un atto d’amore e di rispetto che ci incoraggia a guardare la realtà in modo differente, non funzionale, non assertivo. I lavori di Anzhelika fanno questo “ci costruiscono” una condizione percettiva, cambiano la disposizione delle cose e riescono a farlo con il “minimo” dell’arte stessa: bianco, nero e i loro dialoghi di luce, all’interno dei quali l’occhio è chiamato a viaggiare e a perdere l’orientamento: e noi, con lui. E’ questo l’effetto creato anche dalle Abandoned roads, sospese: le loro dimensioni portano, all’interno dello spazio fisico che attraversiamo, la contraddizione: infatti la texture dei segni (ancora di altissima vibrazione nel gioco frantumato della luce, nella dissoluzione delle profondità prospettiche delle geometrie del luogo) funziona come una sorta di “interruttore” capace di spegnere e accendere la percezione coerente dello spazio fisico in cui entriamo. Ecco che, grazie a questi lavori, ci troviamo in un luogo in cui convivono realtà e immaginazione, che corrode il reale senza negarlo, che destabilizza la percezione “sospendendola” dal reale. Poi, spingendoci verso i piccoli disegni, anche il tempo si sospende perché ad essi dobbiamo dedicare uno sguardo profondo e durevole. Se l’arte è capace di questo, a cosa mai serve pretendere di “rappresentare” ciò che si cerca quando invece possiamo vivere la ricerca? Essa ci porta nell’unica vera condizione dell’“essere contemporanei”: osservare e recuperare la nostra “partecipazione” profonda a quel che sta accadendo.

LOCANDINA
PIEGHEVOLE

Andrea Astolfi
DSCF9275 a cura di Antonio Zimarino
Sabato 22 ottobre 2022

Il potere creativo del difetto di Antonio Zimarino
Entriamo improvvisamente in un luogo dove ci troviamo immersi in una bolla percettiva fatta di sonorità, immagini distorte e colori irrazionali; ci poniamo di fronte alla difficoltà di interpretare brandelli e intuizioni di realtà dentro quest’esperienza estetica pressoché totale,immaginando il progetto concettuale dell’artista,tentando di interpretarla valutando l’effetto, la differenza con il reale, la dissociazione tra vissuto e percepito e quant’altro di concettualmente o fisicamente riusciamo a cogliere. Cosa ci vuole o ci può dire tale esperienza? Tutto questo, la condizione in cui ci troviamo non è in realtà un “progetto” ma una sorta di scoperta-rivelazione legata ad un evento casuale che l’artista ha colto come contraddizione dal logico, come inattesa rivelazione di una anormalità “generativa” di displacemente quindi,di necessaria ricerca di compensazione. Nasce tutto dalla casuale scoperta di una macchina da ripresa ormai difettosa,che riesce solo a distorcere luce e forme, quando invece il suo compito, il senso e la funzione dell’oggetto, sarebbe stato quello di provvedere alla registrazione tecnica della realtà oggettiva. Il difetto, il guasto trasforma l’oggetto “logico” in un produttore inconsapevole di straniamento, in un generatore indeterminato di effetti potenzialmente “artistici”, in una epifania di imprevedibile dissociazione rispetto a quel reale che avrebbe dovuto documentare. L’artista rimane folgorato concettualmente da qualcosa che non si poteva prevedere o progettare come espressione, ma qualcosa di estetico che si è “dato da sé”,generato da un errore tecnico, da un guasto nella procedura prevista e progettata, dalla deviazione incontrollabile del “telos”,della finalità stessa dell’oggetto elettronico. Ciò che genera nell’artista la domanda sul “significato” ovvero sul possibile “senso” di questa epifania “fuori luogo” è dunque l’“anomalia”, l’aporia della logica della macchina,la deviazione imprevista del flusso ordinario delle cose. L’errore, l’imperfezione trasformano il nostro modo di guardare, da “logico” ad “estetico”. L’errore tecnico ci porta nell’area delle domande sul “perché”, sulla percezione, sulla sospensione del senso. L’artista non riesce a reagire all’imprevisto, abbandonando l’oggetto ma si trova costretto a ragionare o a gestire il paradosso dell’oggetto: esso non “registra” le cose ma ne cambia la percezione. Il “caso” che Andrea Astolfi ha coltoci spiega qualcosa di profondo di noi: ci animiamo di fronte all’imprevisto, di fronte a ciò che le procedure non comprendono e non sanno gestire. La “domanda” sul senso è esattamente la condizione che apre a percezioni e approcci differenti; l’imprevedibile manifestazione del non-sensori chiede rilettura, riordino, compensazione e riadattamenti.

Il bambino fa lo stesso gioco con le nuvole: per lo stupore di veder apparire qualcosa di insolito ed indeterminabile nella sua costante trasformazione(noi non sappiamo, il bambino non sa nulla del vapore acqueo e del vento) vuole (e noi vogliamo o crediamo di poter)dare una forma determinata a ciò che costantemente si trasforma. Il potere “generativo”e creativo delle domande e delle ipotesi non va però cercato negli oggetti o nelle nuvole ma piuttosto, “altrove”, nel rapporto che noi poniamo con essi e con esse: l’incanto, il desiderio di leggere qualcosa che è impossibile leggere e definire è in noi, non nelle nuvole. L’imprevisto e l’immaginazione sono le nostre risposte alla domanda che l’Inatteso ci pone. Senso e non senso sono nelle nostre percezioni di fronte all’apparire delle cose. Il gioco del conoscere, scoprire e riconoscere continuo e inarrestabile, sta in noi, anzi, noi siamo quel gioco. Nuvole e macchinette fotografiche difettose “generano” il cambiamento di stato di chi ha a che fare con esse perché spezzano la logica, il flusso d’uso chiedendo così di essere ri-usate, ri-lette da altri punti di vista, magari metaforici, quindi, creativamente più aperti e interpretabili. Andrea Astolfi non si è però limitato a cogliere il passaggio dal “previsto all’imprevisto” che il difetto ha evidenziato ma poiché artista, ha inteso riproporlo e condividerlo per far entrare anche noi nel “gioco”provocato dalla domanda che si genera in noi, su che senso abbia questa esperienza che siamo chiamati a condividere in questo spazio. Il reale “atto creativo” di Andrea è accettare la provocazione al senso che la casualità offre, scegliere la casualità come “pro-vocazione” (ovvero una “chiamata a favore di”) a cambiare approccio nei confronti del reale che continuiamo assurdamente a presumere come costantemente tale. L’installazione è il reale atto creativo, l’aver pensato che il glitch¹, la deformazione anomala di un flusso prevedibile non sia un “errore” di malfunzionamento ma l’accesso ad un diverso funzionamento della nostra percezione, l’elemento che può cambiare l’approccio dal logico all’estetico, la condizione che ci dispone a vedere le cose “domandandoci” sul loro “senso”, spostandoci mentalmente dal logico all’analogico. L’errore, il difetto spingono a superare le logiche procedurali,scardinano la certezza degli usi, dei significati e delle funzioni (di una macchina fotografica soltanto?) e ci fanno spostare dall’abitudine del banale “riconoscere” funzioni,all’imprevedibile interpretazione delle percezioni.

¹ termine onomatopeico che in elettronica, indica genericamente i disturbi di breve durata che si manifestano in un impulso teletrasmesso, deformandone la forma d'onda(Enciclopedia Treccani)

LOCANDINA
PIEGHEVOLE

Michele Montanaro | Enzo Francesco Testa
PILLOW, SPILL-OVER AND LOVER a cura di Antonio Zimarino
Sabato 24 settembre 2022

Evidenti relazioni non dette di Antonio Zimarino
Cosa può aggiungere un pensiero esterno ad un progetto lucido, meditato, analiticamente svolto e declinato da un artista? Spiegare qualcosa di ulteriore delle volte può essere una operazione inutile rispetto ad una seria e meditata ricerca artistica che può essere capace da sé di generare suggestioni e impressioni precise: tuttavia il pensiero dell’Altro può portare ad una diversa “collocazione” di ciò che si vede e si legge, all’interno di un contesto di senso e significati diversi e più ampi. Più ampi non perché si “sa di più” dell’artista ma solo perché si sa “diversamente” da lui. Ma leggere “cosa”? La “forma” ovviamente, anche se nei nostri tempi, non è affatto cosa scontata che questa operazione venga proposta: tendiamo piuttosto a fidarci di ciò che è già nell’evidenza di ciò che le opere sembrerebbero “dichiarare”, rinunciando così a leggere “diversamente” ovvero, rinunciando a generare un pensiero in grado di proporre una comprensione più ampia dell’opera. Se tutto in essa si riducesse a ciò che l’artista dichiara, non avremmo bisogno dell’arte e ci basterebbe la sola descrizione di “ciò che l’artista intendeva dire”. Così però l’arte resterebbe una “dichiarazione” che non richiede commenti, e punti di vista diversi. Invece le forme di Michele Montanaro e Enzo Francesco Testa suggeriscono che in un’opera ci può essere moltissimo che “manca”, che appare “sotto testo” rispetto all’evidenza dell’opera e quel molto, quelle assenze da colmare sono esattamente ciò che “chiama” la necessità del pensiero dell’Altro. Oltre l’evidenza dell’immagine, che cosa potrebbe dirci il “pensare metaforicamente” sulla struttura estetico formale di ciò che vediamo in questa complessa “installazione” a due voci? L’oggetto - scultura centrale è costituito per generare mentalmente la fisicità di ciò che è assente, di ciò che evidentemente manca; l’impronta richiama una presenza che è stata e con essa, tutto l’universo simbolico e le storie possibili che si sono mosse dentro e attraverso un “corpo” di cui ora percepiamo solo la memoria impressa. Alle pareti, la fotografia, che solitamente dovrebbe fissare su due dimensioni una realtà, racconta e cerca di presentare un movimento realisticamente “impossibile” ovvero la distanza incerta tra corpo e impronta che potrebbe essere tanto un movimento di “separazione” che di “ricongiungimento”. Entrambi i “media” artistici cercano quindi di conservare e mostrare ciò che non c’è e sembrano tra loro invertire i ruoli: la scultura diventa l’immagine quasi fotografica dell’assenza e la fotografia registra un processo mentale e dinamico della presenza: la scultura è l’evidenza della “perdita”, la fotografia è la suggestione imprecisa non solo di un distacco, ma potenzialmente anche di una “riconnessione”. Arrestare l’istante, imprimerlo, conservarlo, rileggerlo, re – immaginarlo: nel sistema coordinato di rimandi tra foto e scultura c’è una complessa narrazione di abbandoni, assenze e desideri. C’è il senso impreciso e ineluttabile che si da allo scorrere del tempo; c’è il desiderio di ricomporre, come quello di capire cosa si è perso e cosa si vuole ritrovare. L’“impronta” è per altro un elemento che torna costantemente nel lavoro di Michele Montanaro: è la testimonianza di qualcosa che è stato reale e non lo sarà più, di una sensazione fisica non eliminabile di contatto profondo con la materia. L’impronta è il segno di una realtà e quindi, su questo ipotetico “cuscino” l’impronta del corpo, del sonno e dell’abbraccio diventano l’evocazione indelebile di uno “stato” di tenerezza, di incoscienza e inconscio, di oblio, di inconsapevolezza e di “abbandono”.

La fotografia di Francesco Testa sceglie di rappresentare l’indeterminazione di un distacco o di una riconnessione, suggerisce cosa è perduto e cosa può essere ritrovato: ma cosa? Un corpo vivo in movimento, che ha generato la sensazione la fisicità perduta e desiderata. Ma quale “corpo”? Perché è “femminile”? Ciò significa che il lavoro non è “autobiografico” ma profondamente metaforico: il “corpo femminile” è un universo simbolico antico e infinito quanto l’esistenza stessa. La Madre, L’Amante, La Terra, (e il colore del corpo è straordinariamente simile a quello della materia che lo ha accolto e ne ha conservato memoria) un nucleo di desideri, di certezze e incertezze affettive profonde, di accoglienza e protezione, ora assenti, ma che sono state “presenze” e che quindi diventano desideri di un ritorno. Montanaro è attaccato al tempo, all’istante, al senso della transitorietà, a quelle verità o impressioni percepite che l’attimo non riesce a conservare nel suo fluire ma è proprio tale assenza che genera l’ansia e il desiderio di ricordare e ritrovare ciò che è mancato; Testa evoca il processo avvenuto ed insieme, quello desiderato: la fotografia e la scultura diventano entrambe testo del “non dicibile” del non rappresentabile, ovvero, di uno stato di sogni, memorie e possibilità perdute e da ritrovarsi. E’ davvero questo che gli artisti volevano dire? Non so, probabilmente intendevano anche altro, ma certamente ciò che abbiamo detto si può credibilmente leggere nel sistema di relazioni che si costruisce in mostra: se l’opera si propone in tali forme e relazioni è inevitabile leggerla attraverso esse e attraverso ciò che sappiamo ipotizzare di esse. Stiamo costringendo a far dire all’opera ciò che non voleva? No. Leggiamo nell’opera ciò che può dire, oltre ciò che dichiara: del resto l’arte non funziona e ha ben poco senso come semplice “comunicazione” di pensiero, ma può avere il potere della “generazione” del pensiero nella sua interpretabilità, ogni qualvolta la si voglia davvero incontrare profondamente impegnando sensibilità e sapere. Ma checché se ne voglia dire, non si può evitare questo “fatto visivo”: il centro di tutto, il sistema formale visivo e simbolico resta in quel corpo femminile, reale ed evocato, che è stato e non è, quel simbolo ancestrale di dormiente senza volto che era nell’inconsapevolezza del sonno, un tutt’uno con la materia e che poi la consapevolezza del reale ha separato ma che la materia ricorda e il sogno ancora desidera.

Michele Montanaro ed Enzo Francesco Testa desiderano esprimere un ringraziamento speciale a Serena Marcolongo per il suo importante contributo ad entrambi i progetti.

LOCANDINA
PIEGHEVOLE

Minus Log
NO MAN’S LAND a cura di Antonio Zimarino
Sabato 7 maggio 2022

No man's land, questo luogo di Antonio Zimarino
Umanamente pensiamo che vedere qualcosa sia “conoscerla” e che questo vedere stabilisca in qualche modo la sua realtà. Il processo di “comprensione” invece, (cioè del cogliere, contenere con la mente il senso di qualcosa o delle relazioni tra qualcuno o qualcosa) è una operazione molto articolata della quale possiamo renderci conto anche solo soffermandoci su tre termini basilari che entrano in questo “processo”:vedere, visione e sguardo. Questi termini non sono affatto sinonimi, anzi, ciascuno di essi permette di capire, aiuta a comprendere in che modo noi gestiamo la conoscenza attraverso appunto, il vedere. Vedere - (il primo passo del processo)è la facoltà oggettiva della vista, il percepire stimoli esterni attraverso la funzione visiva. - Visione - è la funzione, la capacità del vedere, dell’esaminare; è il modo di vedere, concetto o idea personale che si ha in merito a qualcosa; o ancora: è apparizione, immagine o scena del tutto straordinaria, che si vede o si crede di aver visto, in stato di estasi o di allucinazione o anche in sogno. Il termine - sguardo - invece,implica scegliere come vedere, implica una comunicazione, un rapporto con ciò che si vede; implica una “ampiezza”, una capacità di cogliere e di interpretare. Pensando alla complessità di cose che suggeriscono tali termini (ma dovremmo anche ragionare su cosa significhi poi, comprendere) bisogna accettare il fatto che, quando noi ci troviamo davanti a qualcosa che vediamo, è sempre la nostra mente con le sue conoscenze che riesce a completare e ad aggiungere significati a ciò che viene visto. Secondo gli studi della psicologia della visione, sappiamo che la mente riesce a farci credere di aver visto anche dei segni che in un’immagine potrebbero non esserci: essa infatti tenta sempre di completare le parti che mancherebbero, dato che ha bisogno di collocare la “logica” della visione e dell’immagine in qualcosa di riconoscibile, secondo una sorta di imprinting visivo che non appartiene unicamente alla dimensione cosciente. Dovremmo concludere che in fondo la conoscenza e l’esperienza delle cose non sia mai completamente in ciò che vediamo e in ciò che gli occhi o la presenza ci testimoniano, ma che ogni cosa è sempre a suo modo una visione che il nostro sguardo tenta di interpretare. Nessuna cosa è dunque esattamente come riteniamo di vederla ma piuttosto noi vediamo e comprendiamo secondo ciò che siamo, secondo ciò che sappiamo, sia a livello conscio che inconscio. Tenendo per buono ciò che abbiamo detto prima, la differenza di comprensione in arte (ma non solo) la compie esattamente la qualità dello sguardo che utilizziamo per vedere e formare la visione. Ma da dove nasce questa qualità? Ovviamente molte sono le risposte possibili ma, limitandoci al campo dell’arte e al netto degli atteggiamenti, delle presunzioni, dell’autoreferenzialità, il nostro sguardo può essere considerato il nostro modo cercare cosa vada a completare il desiderio, l’idea inconscia che abbiamo di noi e del senso di ciò che siamo. Se volessimo fidarci anche solo della riflessione di James Hillman, nell’immagine (nell’arte) cerchiamo di trovare ciò che “potrebbe essere”, ciò che fa respirare o comprendere per un attimo “l’anima”¹. Al di là delle mille carabattole che affollano la vita, noi nelle cose d’arte cerchiamo il completamento di un destino, di uno sguardo o di una illusione, e quel destino, quello sguardo è esattamente “nostro”,siamo esattamente “noi” che cerchiamo nell’immagine qualcosa che ci completi come “anima” sia quando la osserviamo che quando la creiamo; ma anche quando semplicemente la “allestiamo” in una mostra o la guardiamo nello spazio che la ospita. Per una serie diversa di motivi, ho l’impressione che questa No man’s land corrisponda a qualcosa del genere. Ogni acquerello è una sorta di “sguardo da una piccola finestra” verso uno spazio che al di là dal muro; ogni piccola velatura è un “piano” della visione, ogni segno geometrico interagisce con il colore “organico” cercando di rafforzarlo o sostenerlo. E’ come se questi “segni” ci costringessero per via di minimalità e rarefazione ad “entrare” dentro quello spazio che giustamente, non è “territorio umano” nel senso “realistico” ma è uno spazio ulteriore, meditativo non meno reale,perché ci appartiene interiormente, perché è un sguardo “mentale”.

E’ la stessa struttura “debole” dell’immagine a renderla capace di costruire l’oltre, perché ci costringe ad osservarla, a completarla, a concentrarci su di essa, a ri-costruire ciò che c’è e a completare ciò che manca: se vogliamo farlo, è l’immagine che spinge ad organizzare la qualità dello sguardo di cui parlavo prima. E’ la capacità fatica² dell’immagine ad avere questo potere di far dialogare lo sguardo con l’immaginazione permettendoci così di superare le superfici di noi e delle pareti per entrare in qualcosa di intangibile eppure pienamente reale, cioè in noi stessi. Ma anche lo spazio “al di qua” della superficie gioca un ruolo importantissimo in questa (relativamente) “piccola” mostra: è il punto, il luogo da cui noi guardiamo queste piccole “finestre” sullo spazio ulteriore. Grazie a come è stato pensato, possiamo dire che non c’è stata fin’ora una mostra qui che non sia riuscita a portare chi vi entra in un luogo “altro” rispetto al quotidiano: ciò significa che questa non è una mostra di acquerelli ma una vera è propria installazione site specific, “osservatorio sull’oltre”. Questo tipo di esperienza dello spazio “oltre” può avvenire in questa forma, solo qui. I Minus Log hanno pensato/intuito questi lavori per questo spazio, che ha una sorta di capacità sacrale da sembrare un “anticamera” alla coscienza meditativa; hanno compreso che questo tipo di sguardo sull’oltre può aprirsi solo dopo un primo passo, quello di entrare dentro una dimensione diversa delle cose. Così hanno immaginato che qui, più che in altri luoghi, era possibile dare la possibilità di aprire lo spazio che è al di la delle pareti, e che qui era possibile farlo con la logica dell’intelligenza e della curiosità, non della forza. Ecco perché dal mio punto di vista questa non è una “piccola” mostra: se è capace di aprire il campo dell’immaginare, se è in grado di farci intuire qualcosa che è oltre ma non è tangibile, se riesce a mettere in moto la capacità della mente di completare, di completarsi e di cercare di spingere sguardo e memorie verso dove non sappiamo, come può essere “piccola”? Come può essere piccola se lo spazio da percorrere e da abitare è enorme perché non ha più le coordinate e i limiti delle dimensioni spaziali e temporali? Le mostre davvero piccole sono invece quelle affollate di tanta roba che cerca affannosamente di gridare per farsi vedere. Le mostre piccole sono quelle che ti costringono ad esserci, a vedere migliaia di cose senza darti il tempo di capire, di cercare dentro o di attivare le tue capacità di entrare in esse e completare il “senso” con cui tu la vivi e lei (la mostra) ti vive. Ci vuole “tempo” per riscoprirsi intelligentemente umani e per ritrovare una dimensione interiore ci vuole relativamente poco, ma deve essere qualcosa che attiri, accolga, porti per mano come questi minimi segni che interrogano l’immaginare. E’ per questo che penso che “No man’s land” l’opera che presentiamo sia questi acquerelli con queste caratteristiche dentro questo luogo. Qui ed ora, un piccolo e riservato luogo dove siamo spinti a cercare un immenso e infinito luogo che è la nostra esperienza dell’arte e, secondo Hillman, il nostro desiderio di riconoscere l’Anima.

1 «Attraverso la forza dell'immagine, che si esprime come sintomo […] l’uomo naturale, che si identifica con lo sviluppo armonico, l'uomo spirituale, che si identifica con la perfezione trascendente, e l'uomo normale, che si identifica con l'adattamento pratico e sociale, deformati, si trasformano nell'uomo psicologico, che si identifica con l'anima.» J. Hillman, La vana fuga dagli dei, Adelphi, Milano, 1991

2 In linguistica (B. Malinowski): funzione fatica, quella del linguaggio quando la comunicazione ha il fine di assicurare e mantenere il contatto tra il locutore e il destinatario del messaggio

LOCANDINA
PIEGHEVOLE

Di Bernardo Rietti Toppeta
IN ORSA MAGGIORE & MINORE a cura di Antonio Zimarino
Sabato 19 marzo 2022

Intrinsecamente umani di Antonio Zimarino
Il rapporto tra (Χάος) caos / cosmos (κόσμος) non è solo il nucleo generativo e fondante della cultura greca ma è anche il punto di partenza dell’intero pensiero occidentale che da essa si è generato; ma a ben guardare tale rapporto è essenziale in ogni forma di cultura, anche non “mediterranea”, che ha inteso dare risposte diverse al problema antropologico della dualità e degli opposti. Nelle culture orientali in particolare, le dualità hanno da sempre configurato la dimensione esistenziale e “storica” della persona, il fluire ciclico e ricorsivo degli opposti in cui essa è, i concetti di permanenza e impermanenza, l’orientarsi consapevole o inconsapevole e la variabile indeterminatezza del vivere. Che questo sia un problema essenziale anche del “contemporaneo” è assolutamente ovvio ed evidente anzi, questo è il problema centrale di ogni “contemporaneità”: continuamente c’è da capire cosa fare, perché farlo, continuamente cerchiamo di scegliere, capire fronteggiare, seguire, distinguere e discernere, ed è questo che è autenticamente “umano”. Il vero grande problema è quando questo non accade più, quando rifiutiamo di farlo, vuoi per estenuazione o solo per “comodità” e pacifica deresponsabilizzazione.Il “presente incessante” non ha memoria, non ha identità, ti piega alla sua volontà alle sue logiche spicciole, prevede e causa la dispersione dell’identità, si compiace della fluidità occasionale e conveniente. Orientarsi, segnare una differenza, discernere, prendere posizione non sempre è un qualcosa di conveniente: è un atteggiamento che “rallenta”, che pretende attenzione e consapevolezza delle cose; ostacola i flussi, li incanala, impone delle scelte e degli orientamenti, cerca di comprenderne direzioni e composizioni, almeno anche solo per qualche istante, almeno per dire a se stessi di essere qualcuno. Non avere coscienza dell’accadente, perdersi nel fare, adeguarsi passivamente ai flussi significa piegarsi alle leggi del contingente e del necessario, mentre distanziarsi da esse, porsi lateralmente ai flussi e osservarli, andando a se stessi, significa provare a darsi una legge, a cercare un significato, a definirsi rispetto all’indistinzione. Ed è questo che è invece profondamente “umano”. Tentare di distinguere nel Χάος, costruire ipotesi di interpretazione e direzione in esso, significa provare a disporre un “ordine” / κόσμος ovvero un senso alle cose, un idea delle cose. Oltre (e insieme a) quella esistenziale la questione é dunque anche di tipo epistemico, cognitivo e intellettuale: il problema legato al dualismo fondamentale Χάος / κόσμος si declina quindi anche nelle diverse forme basilari e generative del pensiero (noto/ignoto - chiarezza/oscurità - bene/male …) ovvero è la base della stessa origine del conoscere, del comportarsi, del relazionarsi, dello sviluppo delle culture materiali, economiche, civili etc. ovvero di tutte quelle cose che costituiscono “l’universo” che abitiamo e con cui ci relazioniamo. La dualità disordine / ordine, identifica la differenza fondante e generativa delle scelte, del pensiero (da cui l’aforisma nietzschiano); è ciò che ci costringe a trovare una soluzione all’ignoto o, se non una soluzione, almeno una ipotesi di soluzione, ovvero, la “stella” leggera, danzante davanti ai nostri occhi che illumini almeno un poco, una ipotesi credibile, un orizzonte a cui tendere. Χάος è la condizione di oscurità, imprevedibilità, passività di fronte agli elementi, alle volontà, allo stesso fluire illogico delle cose che si succedono e si combinano nel vivere; il κόσμος è tutto ciò che ipotizziamo, opponiamo, “ordiniamo” per avere un’opportunità di orientarci, muovere, passi, gesti, costruire, rendere conoscibile e interpretabile ciò che accade.

Siamo dunque dentro il fondamento stesso delle scelte, della coscienza del tempo, dei gesti, del pensare o del non pensare; siamo allo stesso tempo dentro il macrocosmo che “ci vive” (cioè che condiziona il nostro essere e pensare) e il “microcosmo” che abitiamo (ovvero, il piccolo mondo attorno a noi dentro il quale le nostre idee e le nostre “posizioni” sono in grado di dare un “effetto” se pur piccolo) Se queste sono le condizioni generali del problema, l’installazione che abbiamo di fronte, non può essere “incontrata” solo attraverso dualismi superficiali del tipo: “bella/brutta” - “suggestiva/banale” - “interessante/incomprensibile” etc. etc. …) come ci porta a fare la retorica generalista dell’estetica banalizzata dell’arte “da consumo”, cioè subordinata al flusso dell’occasione e del soggettivo. Questo lavoro va invece colto nelle sue simbologie e all’interno di una riflessione sull’ essenziale, cioè sul problema fondativo che esso pone: è un modo per dare percezione visibile, per essere immagine metaforica della questione essenziale del dualismo di cui prima parlavamo. Del resto, è proprio dell’”arte” più concettualmente motivata, tentare di “dare forma” ad una percezione, proporre l’immagine percepibile e fruibile di ciò che si è intuito, provando a dare un “senso” ricostruibile a ciò che ci attraversa internamente come percezione. L’installazione non dice “cosa sono le cose che si rappresentano” come purtroppo troppa arte contemporanea anche celebratissima continua stereotipatamente a dire, ma propone di prendere coscienza di “come le cose stanno” attraverso la rappresentazione. Non interpreta, non pontifica, non ostenta, non grida, semplicemente evidenzia, ripartendo dalla necessità di orientarsi, cioè da un punto-chiave entro cui si gioca la costante costruzione di un esistere. Ci pone semplicemente l’evidenza di ciò che dovremmo fare: orientarci, scegliere, tentare strade, prendere una posizione, riconoscerla, nell’ambiente, fisico, sociale, professionale in cui ci troviamo ad abitare. Le costellazioni evocate, il cosmo, le simbologie delle stelle, le loro funzioni ancestrali, le tracce ipotetiche che le legano in loro e tra loro nello spazio; il “sale” simbolo terrestre, tellurico, elemento capace di assorbire, d istruggere o purificare; i termini che esso evoca: sapidità, sapore, ( gli etimi stessi del termine “sapienza”) sapere che per noi significa conoscere ma che per il latini (sàpere) significava “avere un gusto”; il sale (minerale) trattiene l’acqua (il flusso, il fluire), la assorbe, gli da sapore, arresta, contiene il flusso, da un “gusto” a ciò che fluisce … beh direi che qui è possibile liberare la metafora fino a meditare, cioè, a cercare il senso profondo di ciò che si offre agli occhi. Costruire, simbologie, aprirle alle relazioni, intravvederle, renderle percepibili … in fin dei conti è esattamente ciò che umanamente ci è dato di fare per combattere il non senso del flusso incessante e immemore dell’inconsapevole. Costruire e proporre un “senso” possibile, dare un significato che costruisca e apra pensieri: questo si che è intrinsecamente umano.

LOCANDINA
PIEGHEVOLE











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