DINAMISMI 2019
Alessandro Antonucci | Lia Cavo | Francesco Di Bernardo | Michele Montanaro | Alessandro Rietti | Francesco Toppeta
PLASTIKOS a cura di Antonio Zimarino
Sabato primo giugno 2019
Plastikos: modellare e modellarsi, tra volontà e natura di Antonio Zimarino
Presi come siamo dalla nostra autoreferenzialità spazio-temporale, interpretiamo troppo spesso le cose per
come il nostro contesto le intende e non secondo ciò che le cose sono o sono state, ovvero, non guardiamo
mai le stratificazioni di senso che le cose assumono nel tempo. Così facciamo anche per i nomi, per i
sostantivi: ci limitiamo a leggerli orizzontalmente senza renderci conto che spesso la loro “storia” il loro
portato semantico “verticale” (cioè di profondità) può essere molto più denso delle cose stesse.
Così Il termine πλαστικός (plastico) lo associamo automaticamente ad una delle cose peggiori che l’uomo ha
creato (oggi, peggiori, perché non si sa come liberarsene) ovvero alla “plastica”, ad una materia sintetica e
innaturale di cui ci siamo riempiti l’esistenza, non solo reale, ma anche metaforica: “mondi di plastica”, verità
di plastica” etc. … la plastica è finzione, artefatto, sintesi innaturale, orpello, consumo.
πλαστικός è invece qualcosa di molto più interessante: sia in latino che in greco plasticus oppure plastikos
significava “in grado di essere modellato” e si riferiva tanto al materiale argilloso che si usava per creare
ornamenti e modanature architettoniche che per indicare “colui che modellava” cioè che dava forma a quel
materiale.
Plasticus significa anche “colui che modella”, che da forma alla materia (modellabile); riflettendo intorno a
questo vero e proprio “campo semantico” è facile dedurre che non c’è reale possibilità di modellare cioè di
dare una forma alle cose, se non c’è qualcosa, una qualche materia che può essere modellata. Ci vuole
dunque qualcosa di “modellabile”, una materia che si può affrontare e che si presti ad acquisire la forma, che
si pieghi all’azione, alla forza e alla volontà di chi intende agire su di essa. Se ci riflettiamo però, è proprio
della nostra capacità intellettuale, della nostra capacità di “costruire cultura”, dare forma al mondo, o almeno,
al nostro. Sono le nostre scelte, le nostre idee, il nostro modo di avere relazione con il mondo che finisce
sempre per modellarlo, per dare un senso alla vita, l’esistenza, le idee, le relazioni; è propriamente “umano”
provare a costruire il proprio modo di stare al mondo, il proprio universo di relazioni: è propria degli esseri
umani la possibilità di dare un significato, una leggibilità a ciò che si è o che si vuole essere.
Ogni artista di questa rassegna prova, ciascuno a suo modo, di intervenire e “dare forma”. Ma “dare forma”
significa dare intelligibilità, dare possibilità di leggere, dare modo di comprendere, dare significato. “Dare
forma” in definitiva significa “dare senso” tanto alla materia, che alla propria azione, alla propria all’idea, alla
propria capacità di pensare, saper fare, saper guardare e saper “scegliere”. Questo sforzo però incontra
l’identità e la “personalità” propria della “materia” che si affronta: in questo gioco a significare, dobbiamo
imparare a fare i conti con ciò che le cose sono e rappresentano, cioè con i limiti.
Attraverso questa rassegna, noi abbiamo la possibilità di vedere alcuni esempi di come si cerchi di “dare
senso”, o quanto meno di proporre senso a qualcosa che in realtà, non è totalmente informe e definito:
agiamo sempre dentro “campi di senso” operiamo in una realtà dove le cose e i materiali non sono inerti ma
già da soli, storicamente hanno acquisito una tale stratificazione semantica da “parlare” un linguaggio
proprio, da avere una Natura propria. Infatti nel nostro tipo di società fondamentalmente postmodernista,
l’azione creativa non consiste solo nel dare senso a cosa senso non ha, ma anche a riscoprire un senso a
cose troppo convenzionalmente definite. Gli artisti (ma anche gli umani in genere) sentono il bisogno di
ridare senso anche a ciò che è convenzionalmente interpretato e a ciò che è rigidamente definito.
Soprattutto in una società come la nostra, dove le cose appaiono sempre più convenzionali, stereotipate o
sovrabbondanti, si sente il bisogno di ridefinire, di specificare e recuperare l’identità degli oggetti, dei
comportamenti.
La “spettacolarizzazione” necessaria al marketing dell’arte, delle idee, di “se stessi” (per credere di avere un senso nella società di massa) se da un lato rende “evidente”, dall’altro falsifica e spersonalizza, non consente più di capire con che cosa abbiamo realmente a che fare. Ho l’impressione che gli artisti qui rappresentati sentano la necessità di ridefinire, ridefinirsi, ri-formare il proprio rapporto con le opere, con la creatività, con la “natura” intima di se stessi e delle cose che modellano: credo che qui possiamo osservare, come si possa restituire significato al proprio operare e come si possa restituire un senso più coerente al proprio essere riscoprendo proprio le stratificazioni di significati che secolarmente abbiamo attribuito alle cose. Dare significato, dunque, a rispetto a cosa? A che cosa si intende dare senso? Cosa viene affrontato da questi artisti? Quello che mi ha interessato di questa mostra è che ciascuno a suo modo, si pone di fronte una questione “nodale” o fondante dell’essere artista. Ognuno sceglie una “materia” da modellare, più o meno densa o rigida, ma evidentemente sentita come luogo, come dimensione realistica, concreta e fattiva di ciò che si intende discutere: materia pittorica, materia fisica, materia naturale, materia ideale, materia metaforica, materia concettuale etc. Sono artisti che non hanno alcuna voglia di giocherellare con le ironie auto assolventi, con le citazioni più o meno sensate, con l’indulgenza compiaciuta nei confronti di superficialità esistenziale tutto sommato conveniente, perché non obbliga a scegliere secondo il “senso” delle cose ma secondo l’“utile” delle cose. Sono artisti che appaiono sostanzialmente stufi delle spettacolarizzazioni in fondo così amate e stupefacenti per la maggior arte dei frequentatori delle kermesse artistiche contemporanee. Per questo tentano di modellare dei materiali difficili, primari, spesso densi e faticosi, eppure, fondanti: ad esempio, Antonucci cerca di realizzare minimi interventi su ciò che si trova ad incontrare e ad osservare. Agisce appena, lievemente, sul “trovato”, per riqualificarlo in modo metaforico e simbolico senza negare mai la materia (e l’identità simbolica) di cui l’oggetto è composto ma “risemantizzandola” con interventi minimi. Lia Cavo affronta invece un piano più concettuale: cerca di modellare i valori simbolici e stratificati di oggetti, cerca di trovarne la variante concettuale, “aggiungendo” o sottraendo ad essi, degli elementi, provando così a suggerire percorsi interpretativi diversi per cose solitamente e storicamente canonizzate in certi sensi e funzioni. Di Bernardo riflette sul potere che l’uomo e l’ambiente naturale hanno di “modellarsi” reciprocamente, sottolineando il fatto che, quando l’Uomo pretende di modellare la Natura, essa finisce per soccombere, ed è “perdente”. Quando invece l’Uomo si lascia modellare dalla Natura, l’uomo ne è ricostruito e rigenerato: ciò significa che è necessario ristabilire con essa un rapporto “ecologico” dove il termine stabilisce la coscienza del limite che noi umani non possiamo superare nei confronti di ciò che è altro da noi. Montanaro lascia o vorrebbe lasciare che la qualità fisica, solida e formale della materia modelli le forme stesse dell’opera e insieme ad esse, le “idee”. Intende far si che la composizione scaturisca dalla natura fisica e cromatica del materiale stesso per evitare appunto la presupponenza delle idee, la presunzione che noi umani abbiamo di costruire le cose secondo la nostra idea di esse e non secondo la loro “natura” fisica e simbolica. Attraverso questa via, tenta di aprirsi alla possibilità del significato offerto dall’“originario” dal “primitivo” che appartiene alla materia stessa. Rietti vorrebbe trovare invece un luogo totalmente altro e diverso, che consenta di sfuggire alle “modellazioni” condizionate che i contesti ci pongono. Vorrebbe trovare un luogo dove l’idea viva pura in se stessa e si manifesti al di fuori del convenzionale, del retorico, del contestuale. Toppeta tenta di mostrare come solo il rispetto reciproco tra il “volere” e il possibile, tra ciò che soggettivamente si ritiene che serva e ciò che la materia e la sua natura consentono, possa portare ad una sorta di “ecologia” della creatività, dove l’artista medita su ciò che sarebbe giusto fare o su ciò che è giusto pretendere dalla materia. In questo modo ristabilisce un equilibrio armonico tra le cose, autenticamente naturale, dove l’artista dialoga tra se stesso e i misteri che l’alterità stessa gli pone.
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